Seguendo uno spirito che potremmo dire caravaggesco, ella ritiene che la luce diffusa e intensa, proprio per il suo illuminare tutto in modo indifferenziato, finisca per nascondere le cose. Sicché, giunta quell'ora del giorno, lei piazza la sua 9 x 12 sul cavalletto e comincia a colpire col suo flash le cose che vuole porre in evidenza. Le sue immagini nascono in questo modo, con lunghi tempi di posa che vanno da dieci secondi a quindici minuti. Così il mare finisce per avere l'aspetto di una tavola e il cielo diventa una scia di fumo. Nello stesso tempo, alcuni oggetti che non restano immobili creano un piacevole effetto di mosso.
Ma, in questa ricerca, il flash non è per la fotografa soltanto lo strumento con cui portare alla luce determinate cose, è anche l'arma con cui nasconderne altre.
Come nel caso dei messaggi dei cartelloni pubblicitari, che colpiti ripetutamente dalla luce del lampeggiatore finiscono per scomparire.
In questa maniera Raffaela Mariniello fa giustizia della terrificante invadenza della pubblicità e pratica una sorta di salutare ecologia visiva.
Raffaela Mariniello, però, non solo toglie. Qualche volta aggiunge.
"Capita - dice - che ci sia uno sfondo che volentieri fotograferei, ma che non ha in primo piano degli oggetti che mi soddisfino. In questo caso, generalmente non fotografo. Ma talvolta mi succede di dover supplire personalmente a questa mancanza di elementi interessanti con oggetti che trovo nei dintorni. Così faccio spostare degli elementi. Una volta, ad esempio, chiesi a un guardamacchine di non fare parcheggiare delle auto intorno al relitto di una giostra ed egli, nonostante non comprendesse il senso di quella richiesta, fu gentile, consentendomi così di fare la fotografia che avevo in mente".
La fotografa non nasconde comunque il timore che il suo uso del lampeggiatore possa in qualche caso risultare eccessivamente teatrale, che possa cioè "spettacolarizzare troppo alcune cose".
Ma è ben consapevole che, nell'economia del suo discorso generale, si tratta di un rischio che si deve correre.
Queste immagini di Raffaela Mariniello sono, dunque, fondate sull'unione di naturalezza e artificio. La fotografa è del resto assolutamente consapevole dell'inseparabilità di questi due elementi, in modo particolare quando si tocca il tema del paesaggio.
Quello del paesaggio è infatti uno spazio in cui natura e cultura si fondono continuamente, producendo sempre nuove forme.
Ogni luogo è ormai, soprattutto in Italia, segnato dall'artificio dell'abitare, intendendo per abitare - così come suggeriva il filosofo tedesco Martin Heidegger - ogni manifestazione del vivere umano. E possiamo dire che nulla appartenga interamente alla natura, alla selvatichezza. Cosa di cui, già nel primo Ottocento, era del tutto consapevole Giacomo Leopardi, quando scriveva: "Una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente".
In realtà, nella sua esistenza, l'uomo sente la selvatichezza come minaccia e pensa che solo addomesticandola egli può vivere. In questo modo, la storia umana ha assunto la forma di una continua sottrazione di "selvatichezza" alla natura: un continuo operare l'artificio dell'abitare. Così che l'uomo ha creato i suoi paesaggi.
È a partire da questa consapevolezza che Raffaela Mariniello ha costruito il suo ritratto napoletano. Un ritratto in cui natura e artificio respirano insieme, assumendo la forma di una realtà viva, palpitante.
"Sì - dice lei -, proprio così, per me queste fotografie sono come un ritratto: il ritratto di Napoli e dei napoletani, nel bene e nel male".
Le chiedo del male e risponde che è tutto nell'individualismo. Mi dice: "Non vi è coscienza collettiva. Non esiste lo spazio comune.
La gente ha quasi l'ossessione della pulizia dei propri spazi e, pulendo, butta tutto fuori, in quello che considera come uno spazio di nessuno. Così, il degrado risulta alla gente del tutto naturale. E anche le discariche abusive vengono viste come una cosa normale".
Le faccio notare che qualcosa di simile awiene anche ai popoli che vengono comunemente considerati depositari di un più alto senso civico: il nord (ricco)del mondo butta i suoi rifiuti nel sud (povero) del mondo, attuando così lo stesso individualismo amorale, solo a qualche migliaio di chilometri più lontano da quella che considera la propria casa.
"Sì, è così, ma mi piacerebbe - dice - che, in un prossimo futuro, i napoletani trovassero la forza per un maggiore senso di partecipazione". Poi, dopo una pausa, aggiunge: "Nondimeno, dal punto di vista creativo, io trovo tutto questo caos stimolante. Stimola il mio desiderio di mettere ordine".
Immediatamente, con un senso di sollievo, penso che questa considerazione contraddice nettamente una frase che Theodor Adorno appuntò tra il 1946 e il 1947 e che ho sempre trovato come una sorta di quintessenza dell'ideologismo: "Il compito attuale dell'arte è di introdurre caos nell'ordine".
Penso infatti che sia sempre esattamente il contrario: che, in ogni tempo, il compito di chi crea qualcosa sia sempre stato quello di produrre ordine. Talvolta un nuovo ordine, ma sempre a partire dall'aspirazione all'ordine.
Il disordine, come la selvatichezza - o, si potrebbe dire, il disordine come forma della selvatichezza -, è la cosa che maggiormente spaventa l'uomo. E, dunque, proprio con la sua capacità creativa egli cerca di superarlo, per pervenire a quello che considera uno stato di armonia, seppure momentanea.
“Da quella finestra si vede una graziosa lontananza di paesaggio”. Con questa frase, nel 1875, Pietro Fanfani e Giuseppe Rigutini esemplificavano nel loro vocabolario della lingua italiana il concetto di paesaggio. Esemplificazione assai simile a quella fatta da Daniello Bartoli nel suo L'uomo al punto (1655): “Per lo vano d'una finestra, e per qualunque altra apertura di lor capriccio, mostrare una lontananza di paesaggio in isfuggita”. Al termine paesaggio è dunque, sin dalle prime formulazioni, connesso il concetto di lontananza. Ed è proprio a questo concetto che inevitabilmente si ricollega la famosa definizione di Rosario Assunto, il filosofo del paesaggio per antonomasia: “Lo spazio che si ‘costituisce come paesaggio è uno spazio in cui l'infinità e la finitezza si congiungono, passano l'una nell'altra”. Non tutto lo spazio può essere, pertanto, considerato paesaggio. Né lo spazio illimitato - come il cielo o il mare, che pure possono naturalmente essere oggetto di esperienza estetica - né quello chiuso (di un cortile o di una piazza) possono essere considerati paesaggi. Il paesaggio, per essere tale, deve essere spazio limitato che si apre alla lontananza, in cui finito e infinito si compenetrano.
Dal punto di vista della rappresentazione figurativa, credo, dunque, che sia bene ribadire l'idea di Rosario Assunto, il quale ha magnificamente definito il paesaggio come uno spazio che nella sua finitezza si apre verso l'infinito e, in ragione di ciò, ha messo in evidenza un dato importantissimo: “la città non è paesaggio, ma sta col paesaggio in un rapporto che non è di funzione, ma di rappresentazione; il rapporto tra due estensioni geometriche: tra due luoghi metaspaziali”. Una strada o una piazza non costituiscono un paesaggio, ma possono essere nel paesaggio, così come il paesaggio può entrare in esse. In Italia troviamo bellissimi esempi di ciò, in città in cui il paesaggio entra nelle vie e le vie vanno a finire nel paesaggio. Basti citare per tutte la sensazione che Nietzsche provava a Torino: “...dal centro della città si vedono le Alpi innevate! Le strade sembrano portarci dritto lassù. L'aria è asciutta, tersa in modo sublime”. Come ho scritto altrove, parlare di paesaggio urbano è dunque improprio: è il segno di una confusione analitica o, se si vuole, di un certo frettoloso accomodamento. Quando usiamo l'espressione “paesaggio urbano” dovremmo intendere soltanto “paesaggio visto dalla città” o “la città dentro il paesaggio”. In assenza di queste due specificità, fotografando all'interno di un luogo cittadino, dovremmo parlare di vedute urbane, adottare cioè l'equivalente del termine inglese townscape. Sulla base di questo ragionamento, sfogliando le fotografie che Raffaela Mariniello ha raccolto in questo libro, ci troviamo essenzialmente di fronte a delle vedute urbane in cui, in molte occasioni, il paesaggio e la natura trovano autentica presenza.
Del resto è la stessa fotografa a sottolineare questo dato. “Anche in città - dice - io cerco uno sguardo verso l'infinito. Sono attratta dal senso della lontananza, dall'apertura. Nelle mie fotografie c'è sempre un primo piano e uno sfondo. E c'è sempre qualcosa che rimanda alla natura: un albero, un ciuffo d'erba... A me, quando cammino, viene istintivo cogliere la naturalità, il senso della natura. Bisogna partire dalla terra, dalle sue manifestazioni. Se guardiamo bene, ci accorgiamo che la natura ha una forza incontenibile. Riaffiora continuamente anche dentro la città. Basta guardare i posti che sono stati abbandonati da qualche anno e ci si accorge che sono rispuntati alberi e cresciute erbe. Sì, anche in città, io cerco questa naturalità, attraverso il vento, ad esempio”. Guardando queste immagini di Raffaela Mariniello c'è un dato che immediatamente ci colpisce: il loro essere state riprese in quello che costituisce il momento fatale di molti racconti fantastici, l'imbrunire. E che, comunque, per molti resta - anche nel nostro tempo di certezze tecnologiche e razionalistiche - l'ora di una certa apprensione. (Di fronte allo sparire della luce e al sopraggiungere della vastità della notte, dal fondo insondabile dell'io, anche negli uomini del nostro tempo si riaffaccia, più o meno consapevolmente, la paura che il sole possa non tomare). È questa l'ora preferita da Raffaela Mariniello. l'ora in cui ha ripreso le fotografie di questo libro: andando dai paesi vesuviani (San Giovanni, Portici, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata) ai Campi Flegrei, verso Pozzuoli, Baia, Cuma, Arco Felice, e avendo come maggiore punto di attrazione il lungomare e il porto di Napoli. Per Raffaela Mariniello è questa l'ora creativamente fondamentale: quella in cui può far convivere l'ultima luce del giorno con quella dei lampioni e del flash.
"Io ho bisogno – dice - della luce artificiale e, insieme, della luce naturale". Per questa ragione, durante il giorno va in giro senza macchina fotografica, alla ricerca di luoghi da riprendere all'imbrunire: fa quello che, con una parola oggi usata troppo frequentemente, si dice sopralluogo. Poi, quando il pomeriggio s'inoltra, carica la sua attrezzatura fotografica in macchina e, in compagnia di un paio di amici che fungono anche da assistenti, va ad affrontare gli imprevisti dell'imbrunire, che nel suo caso nascono dalla marginalità sociale dei luoghi frequentati. "Fotografando frequentemente posti molto degradati, provo spesso - dice - un senso di forte inquietudine. Ci sono quasi sempre topi giganteschi e personaggi poco raccomandabili. Non potrei mai andare da sola: non solo sarei certamente derubata della mia attrezzatura, ma correrei anche altri rischi. Ho sempre bisogno, dunque, della compagnia di alcuni amici. In questa realtà è sempre molto difficile fotografare. E, in realtà, in più di un occasione non ci sono riuscita: per ragioni burocratiche o malavitose; in certi casi per le due cose insieme. Così ogni volta che riesco a finire il mio lavoro, torno a casa quasi con un sentimento di conquista". Mentre spiega il suo lavoro, Raffaela Mariniello tiene a mettere in evidenza questo genere di problemi, che sono soprattutto strettamente connessi al tipo di ricerca da lei condotta. "In città come Parigi, Roma o Milano - dice - non è possibile immaginare la difficoltà di fare fotografie a Napoli, soprattutto per una donna". L'imbrunire. Raffaela Mariniello, dicevamo, ama quest'ora del giorno, perché le consente di mesolare la luce naturale a quella artificiale.