RAFFAELA

MARINIELLO

IL BRUSIO DELLE COSE

PROGETTI

Over and over - installazione video in due proiettori, montaggio loop - 2006

Il brusio delle cose - FFotogallery edizioni, Cardiff, Wales, UK 2006

Il Brusio delle Cose

John Bird

 

Il lavoro di Raffaela Mariniello è in controtendenza rispetto a gran parte della fotografia contemporanea, caratterizzata prevalentemente da immagini grandi, a colori ed elaborate con tecnica digitale. Per quel suo rifarsi a fotografie storiche di paesaggi, documentarie e in bianco e nero, per la sua Linhof 4” x 5” a tempi lunghi, Raffaela Mariniello si fa apprezzare proprio perché al di fuori delle mode ed essenziale nell’affrontare i propri soggetti. Recentemente ha sperimentato altri generi, in particolare il video, trasportando così il movimento insito in molte sue immagini - il vento che scompiglia il profilo di alberi e cespugli o confonde la sagoma di stoffe o vele, lo strano effetto che ha un’esposizione di quindici minuti sulla superficie dell’acqua, quando moto ondoso e corrente si fondono in opache sbavature – in una dimensione filmica con proiezioni su multischermo. Le fotografie di aree portuali fatiscenti, di porti affacciati sul Mediterraneo e, più di recente, Cardiff nel Galles meridionale, o quegli intermezzi spaziali che marcano i margini e i confini degli agglomerati urbani – ad esempio a Napoli, sua città natale - si contraddistinguono per una serie di opposizioni formali e concettuali: buio/luce, paesaggio naturale/fabbrica, terra/acqua, immobilità/movimento, assenza/presenza, primo piano/sfondo, pubblico/privato ecc…

 

Il suo genere è il paesaggio, che rimanda a modelli nord europei, propri della tradizione della pittura olandese o inglese del XVII e XVIII secolo. Proprio in questo periodo il paesaggio si affrancò dalle radici classiche e gli artisti iniziarono a rappresentare la graduale trasformazione della natura a luogo domestico, mentre il confine tra campagna e città si spostava e si restringeva e l’industria si sostituiva all’economia agraria invadendo e sconvolgendo le campagne con nuove tecnologie – l’opificio, la nave mercantile e il canale, la riorganizzazione dell’agricoltura, la miniera e la fabbrica. Gli archivi fotografici documentano la rapida evoluzione del concetto di ‘naturale’ e ‘urbano’, mettendo a nudo il carattere costruito e intertestuale di tali formulazioni. Persino le rappresentazioni più estetizzanti e formali danno testimonianza di una politica culturale.

 

La prima e ovvia osservazione sull’attività fotografica di Raffaela Mariniello, oltre all’assenza della figura umana, è che l’immagine non si lascia ricondurre a fonte di informazione. Certo i soggetti sono in linea di massima riconoscibili, ma i loro particolari si presentano intriganti per l’ambiguità o per l’autonomia rispetto al contesto: che funzione avranno mai i tubi in plastica avvolti a spirale in primo piano rispetto all’area portuale di Palermo, o una raccolta di fusti di metallo lungo una via di Beirut, o quella che sembra essere un’esplosione di materiali appesi a una sbarra in un’altra area del porto di Palermo? Che cosa ci fanno tutti quei motorini abbandonati in una grotta a Napoli – cimitero di fantasie da dolce vita dei giovani italiani? Mentre la luce, secondo la tradizione filosofica occidentale, rivela il mondo conoscibile, lo sguardo di Raffaela Mariniello si volge all’indietro nell’antro oscuro di una grotta. È infatti il mito platonico della caverna che viene rappresentato – un interno desolato del quartiere di Billybanks a Cardiff che incornicia le luci della costa in lontananza - e sottolineato con ironia nella fotografia dei motorini confiscati. Non sono ragione e verità ad essere illuminate, ma un commento malinconico sulle limitazioni di certe libertà e un commento ironico sull’abbandono della dimensione utopistica della modernità sociale.

 

In una prospettiva strettamente di geografia urbana ci troviamo alla periferia, ai margini, e guardiamo verso … verso che cosa poi? Certamente non verso la città ideale di un immaginario sia classico che moderno. A prescindere dai vari accenni ad un’architettura sociale razionalista negli edifici residenziali e nei condomini o alla varietà della produzione industriale, non vi è promessa di liberazione o di appagamento all’orizzonte, ma solo e sempre le stesse cose. E’ il punto debole di una modernità caratterizzata da uno sviluppo ineguale e dalla ripetitività del quotidiano.

 

Victor Hugo, in Les Miserables, descrive il singolare fascino degli spazi intermedi, il punto di incontro tra sobborghi urbani e campagna, la ‘banlieue’: ‘Osservare la zona rurale significa osservare l’anfibio: fine degli alberi e principio dei tetti, fine dell’erba e principio del selciato, fine dei solchi e principio delle botteghe, fine delle carreggiate e principio delle passioni, fine del mormorio divino e principio del rumore umano’ … (2) Lo storico dell’arte T.J. Clark riprende questo tema nelle sue considerazioni sulla pittura modernista The Painting of Modern Life, sostenendo che la banlieue era ‘luogo di straccivendoli, zingari e gasometri’, quel genere di spazi malinconici raffigurato da Van Gogh nel quadro La Banlieue di Parigi (1886).(3) Qui edifici, fabbriche e magazzini che si profilano sullo sfondo contro il cielo, sono il commento ad una natura abusata, - zolle di prato e erbacce, uno steccato spaccato, viottoli che si formano da sbavature di pittura, una lampada a gas e qualche figura sparsa qua e là. E una curiosità per l’esotismo del quotidiano esteso anche alla fotografia in quest’epoca; Susan Sontag paragona il fotografo al simbolo onnipresente della vita borghese nelle città verso la fine del XIX secolo, il ‘flaneur’, colui che vaga senza una meta per le strade: ‘Il fotografo è una versione armata del camminatore solitario che esplora, con incedere solenne, vagando per diporto nell’inferno urbano, il vagabondo un po’ voyeur che scopre la città come panorama di voluttuosi estremi’. Come il ‘flaneur’, non sono le cose tradizionali che attirano lo sguardo, bensì gli aspetti sordidi della città, i suoi abitanti derelitti …’. (4)

 

Tutti questi elementi, ad eccezione della figura, sono presenti nel metodo di lavoro e nel linguaggio estetico di Raffaela Mariniello. Effettivamente, il suo racconto personale nelle fotografie dei sobborghi di Napoli ricorda Hugo, ‘straccivendoli e zingari’ diventati “scippatori e drogati” come se lavorasse in uno stato di perenne apprensione, sempre vigile al fascino e ai pericoli tipici di un paesaggio urbano che conserva traccia del naturale. La poetica dei margini, dei confini, dei limiti, di un organico che si infiltra nell’industriale, di sentieri che non portano da nessuna parte o confluiscono nell’oscurità, dei cartelloni pubblicitari e delle finestre oscurate, dei loro messaggi consumistici o delle loro attività cancellate dal flash. Ed ovunque la vicinanza all’acqua – che si spande nelle pozzanghere, che satura crepe e fessure di aree portuali usurate o abbandonate o che separa il porto da edifici distanti e il mare oltre. Non vi è nessun accenno al ‘sublime oceanico’, alla sua forza immensa, in costante mutazione e movimento. Qui l’acqua invece è inevitabilmente superficie, luce, riflesso, separazione, divisione lattea, talvolta opalescente, tra primo piano e lontananza, o riempitivo argenteo di fenditure e cavità, tracce lasciate dal lavoro umano e dall’industria. Il lungo tempo di esposizione di ciascuna immagine – che varia da venti secondi a quindici minuti – trasforma ogni movimento residuo in una visione confusa cosicché la superficie dell’acqua, i veicoli sulla strada, il fruscio del vento tra alberi e cespugli, crea spazi incerti nel campo visivo, ossessionato dalla presenza spettrale dell’impronta del tempo sul corpo.

 

In alcuni casi, i lunghi tempi di esposizione insieme all’uso del flash determinano l’eliminazione del particolare lasciando la superficie vacua di un bianco assoluto che funge da intrusione anamorfica sconvolgendo la coerenza dell’immagine e trattenendo il nostro sguardo. Infatti le variazioni di tonalità, (alcune delle quali ottenute mediante il lavoro in camera oscura) – come il chiaroscuro in pittura – distorcono la prospettiva arretrante, confondono la distanza e i rapporti spaziali già di per sé instabili per la mancanza di una figura umana che assicuri grandezze e proporzioni. Le rappresentazioni dell’acqua di Raffaela Mariniello capovolgono le consuete associazioni culturali con una forza dispensatrice di vita e rigeneratrice, metaforicamente connessa al soggetto umano, il cui movimento ritmico – il flusso e riflusso della marea che si muove per effetto della pressione gravitazionale –, riecheggia i nostri schemi più intimi, un nesso che conduce da sempre ad associazioni mentali con il riprodursi e il generare. L’acqua indistinta dei suoi mari, estuari e porti, fa pensare a una superficie ghiacciata, alla pesantezza fangosa di un liquido in parte solidificato, mentre alcune aree più piccole hanno la precisione dell’acciaio lucido e assorbono tutta la luce disponibile per inferire un’altra frattura in questi desolati spazi urbani. In alcuni casi lo si può leggere come un effluente industriale – petrolio, o altra sostanza chimica più sinistra. E’ costante l’allusione al fatto che non molto di quanto si intende per vita marina riuscirebbe ad acclimatarsi in quest’acqua inquinata dai processi e dai detriti della manifattura industriale. Sono considerazioni che sollevano interrogativi sul ‘contenuto’ politico e sociale dell’immagine, abituale territorio di forme di realismo critico. Non credo che ve ne sia l’intenzione, ma l’insieme di queste immagini ha per effetto una rappresentazione particolarmente impegnata del paesaggio urbano, una riflessione mesta e disincantata sul mondo, che rasenta l’allegoria.

 

Sul piano formale ciascuna immagine presenta una somiglianza strutturale: “Le mie fotografie hanno sempre un primo piano e uno sfondo”. Il primo piano può essere occupato da una strada o da un viottolo che conducono nello spazio pittorico, acqua, riferimenti alla natura – alberi o cespugli, prato, erbacce, cumuli di terra e banchi di sabbia, oggetti di uso domestico o industriale, indefinibili materiali per edilizia - orifizi e protuberanze che fungono da metafore del corpo umano. Gli sfondi portano essenzialmente i segni dell’industria, saltuariamente di alloggi, una rara intrusione di spazi domestici in queste visuali desolate. Muri, staccionate e inferriate racchiudono o collegano il primo piano allo sfondo e l’unica prova della presenza umana, ad eccezione della nostra memorizzazione nelle tracce lasciate dal lavoro dell’uomo, sta nelle finestre illuminate di un edificio lontano. Tutti i luoghi sono documentati nel momento in cui la luce naturale si spegne e subentra l’illuminazione artificiale, le ore del crepuscolo e dell’imbrunire (‘la fase più buia del crepuscolo’). Il tramonto è ‘una condizione o un momento intermedio …. prima o dopo il pieno sviluppo’; ‘buio, oscuro, ombroso’, quell’ora del giorno in cui la vista inganna la percezione, l’oscurità avvolge lo spazio e contrae la distanza e l’illuminazione stradale emette un chiarore quasi stellare o accarezza le superfici di forme e materia. Di giorno Raffaela Mariniello fa dei sopralluoghi, sceglie l’inquadratura e ritorna al calare della sera, affidandosi all’effetto combinato di illuminazione stradale, luce artificiale aggiunta da lei stessa per supplire alla luce del giorno che viene gradualmente meno e dare al primo piano un effetto a rilievo, creando contrasti e risalti caravaggeschi. Tuttavia, nonostante i pericoli reali o immaginari di questi luoghi abbandonati o periferici, il rischio non ha mai connotazioni teatrali o melodrammatiche – non ci si aspetta di vedere un cadavere seminascosto sotto un cumulo di macerie o una mano che spunta fuori dall’acqua, o qualche altra parte del corpo umano nascosta nei cespugli – non c’è spazio per David Lynch, c’è più la sensazione di casualità e disattenzione. No, quelli commessi sono piuttosto crimini di omissione: cose smesse, ignorate, avanzate, quanto rimane dopo che i regimi sociali ed economici se ne sono andati. (E, dopo gli scritti autorevoli di Barthes sulla fotografia, in particolare La camera chiara, l’emozione fotografica viene sempre messa in relazione con sentimenti di lutto, malinconia e perdita). Si potrebbe elaborare ulteriormente la metafora criminale trovando nel metodo di Raffaela Mariniello qualcosa di simile a un’indagine della scientifica: la ricerca di un posto giusto, il ritornare sul luogo con l’attrezzatura adatta, l’approntare l’apparato investigativo, la documentazione fotografica della scena. Gli indizi sono già lì che aspettano di essere scoperti, il carattere incidentale e quotidiano del soggetto accentua l’osservazione deduttiva di un punto di vista significativo, quindi il bisogno di un’esposizione lunga per catturare tutta la luce disponibile, la macchina fotografica che penetra persino in aree di primo acchito non percepibili a occhio nudo. E’ quindi l’opposto dell’immediatezza diffusa nel fotogiornalismo e nella veridicità dei documentari ed è invece fotografia come evento rappresentato. In quanto tale, vi sono riferimenti ai modi artistici degli anni ‘60 e ‘70, come per esempio nell’opera di Dan Graham (il progetto ‘Homes for America’) o di Ed Ruscha (le serie ‘Gasoline Stations’ e ‘Sunset Strip’).

 

 

 

Le sperimentazioni fotografiche degli artisti concettuali hanno avuto un’influenza notevole, sia per quanto riguarda l’approccio che per quanto riguarda il soggetto, sui lavori fotografici più recenti: dalla vita quotidiana (esplorata per la prima volta nelle opere canoniche di Atget, Evans e Sanders e quindi reinterpretata come lato spregevole e disfunzionale delle relazioni sociali nel lavoro di Nan Goldin, Wolfgang Tilmans, Richard Billingham e altri) all’affermazione della potenza espressiva del segno fotografico: di quanto viene mostrato o nascosto nel processo di documentazione stesso. Quello che mostrano le immagini di Raffaela Mariniello – ossia la loro regola di visualizzazione – è il non visto, una visione spettrale di un territorio abbandonato, ossessionato dai ricordi di altre storie e altre vite. Sebbene i suoi titoli riconducano l’immagine alla documentaristica, per contenuto e struttura (formale, tecnico, concettuale) lasciano intendere approcci più flessibili a generici confini. È stato il recupero del non visto a fare da promessa e limite alla tradizione documentaria – come testimonia la famosa critica di Brecht ad una fotografia delle acciaierie Krupps, di cui diceva che nulla rivelava quelle diseguaglianze economiche e sociali che sottendono alle forme di produzione. La verità è uno scopo elusivo (e illusorio) del realismo documentario. Nonostante le pretese di attestare la verità, ‘l’esserci’ o la fattualità dell’immagine non sono più nemmeno la verità dell’apparenza, con tutto quello che avviene nei meccanismi del fotografare e dello stampare (per non dire delle possibilità di manipolazione dell’imaging digitale) dobbiamo cercare altrove la verità dell’immagine. La questione della politica dell’immagine, per quanto attiene a ogni pretesa di verità, va ricercata forse altrove, in un’etica dello sguardo. Per Barthes, la ‘verità’ si trova semmai altrove – nel ‘punctum’ dell’immagine: ‘si verifica nel campo della cosa fotografata come un supplemento che è al tempo stesso inevitabile e delizioso …’(5)

 

In alcune delle prime opere di Raffaela Mariniello, come per esempio la serie ‘Bagnoli, una fabbrica’ (1991), alcune figure spettrali si librano in volo o attraversano l’immagine scivolando, uno stivale o un guanto smesso giacciono nel terreno, allusioni al lavoro manuale o alla storia della fotografia che porta da Rodchenko a Man Ray. Più di recente, nel saggio fotografico commissionatole sulla città di Napoli (2001), o nel corpus di opere attuale, la aderenza letterale alla realtà, presente nella serie di Bagnoli, e l’estetica formale che sfiora il pittoresco, sono state sostituite da una retorica visuale più ricca e complessa sul piano connotativo. Si tratta sempre di non-luoghi, spazi abbandonati ai margini di attività industriali o sociali impregnati di malinconia, ma per la sovrapposizione di oggetti e contesti, il significato tende verso l’ambivalenza e la contraddizione. In quanto tali, e visto il ricorrere di metafore del corpo umano, essi mimano l’investimento Surrealista nell’oggetto/i del desiderio, il fascino manifestato dai fotografi Surrealisti (soprattutto Man Ray) per il Readymade e i doppi sensi e il significato simbolico nella codifica della realtà. Lo si è spesso ottenuto attraverso abbinamenti improbabili, il paradigmatico ‘incontro fortuito’ e, da come Raffaela Mariniello colloca l’oggetto/i in primo piano nello spazio che fa da sfondo, si coglie una analoga dissonanza che apre l’immagine all’azione della metonimia, alle catene di significati che la collegano a una gamma molto più ampia di riferimenti culturali.

 

Raffaela Mariniello non si interessa dell’effettiva specificità di un luogo – come la tradizione fotografica derivata da un’indagine topografica o da una mappatura scientifica dello spazio. I segnali geoculturali di diversità sono di gran lunga meno evidenti della qualità di forma e di atmosfera di una sensazione generalizzata del contesto. Che il soggetto sia il Galles del Sud o un porto del Mediterraneo importa meno dell’effetto della luce sull’acqua, del gioco di ombre e luci contrastanti sulla superficie o dell’interazione di forme organiche, industriali o architettoniche. C’è comunque qualche indizio che aiuta nell’identificazione: una fila di tetti e giardini, tendine a rete raccolte, un muro di pietra secca, alcune varietà ben individuabili di piante, indici di un clima particolare (caldo), un gasometro, un condominio, oggetti suggestivi di modelli di vita e lavoro quotidiani, che danno il senso del luogo – di cosa si provi a stare nel posto scelto dal fotografo per scattare la foto. Ma queste sono caratteristiche secondarie di una narrativa della dislocazione e dell’incertezza. Ma non si tratta più di immagini considerate come ‘panorami’ in senso convenzionale – la singolarità del mondo offerto alla macchina fotografica – così come non sono i tipici paesaggi nel senso della storia dell’arte. Personalmente credo che, nei suoi giri di perlustrazione prima di scattare le foto, Raffaela Mariniello non cerchi semplicemente insiemi di elementi, come per esempio il collegamento tra naturale e urbano, ma anche il modo in cui un luogo si imprime fisicamente sul soggetto – un senso di disagio e ansia, una sconnessione di forma e funzione, la perdita di abitudini – tutte cose che sovvertono qualsivoglia tendenza voyeuristica. Questi sono luoghi che sostengono il nostro sguardo e sfidano la nostra intrusione.

 

La dimensione temporale delle immagini di Raffaela Mariniello evoca sia la provvisorietà potenziale che la temporaneità duratura della fotografia. Come si è notato, essa scatta soprattutto nel momento in cui la luce naturale si affievolisce quando scende la sera. Di che stagione si tratti non è altrettanto chiaro: c’è qualcosa che indica il cambio di stagione di un calendario che va dall’inizio d’estate e metà autunno. E’ il lasso di tempo in cui rimane aperto l’obiettivo a scandire l’azione cronometrica, percepibile nel confondersi e ammorbidirsi delle sagome delle forme, o sulla superficie dell’acqua – tempo che passa, senza stacco, nel movimento. In una delle prime serie, utilizza la classica tecnica di ripresa al rallentatore, di Muybridge e Marey, ma la sua fotografia attuale presenta l’effetto quasi contrario all’analisi del movimento attraverso i suoi momenti costitutivi. Semmai il movimento nasconde più che palesare, mentre alberi e cespugli diventano simili a nuvole o adottano parvenze più appariscenti, l’acqua si raggela e gli oggetti in primo piano perdono di specificità e diventano misteriosi. (Altra fonte potrebbe essere quella dei fotografi Futuristi italiani Arturo e Anton Giulio Bragaglia, che si cimentarono con lunghi tempi di esposizione di figure in movimento per fissare un’impressione generale o Gestalt di azione e gestualità corporea). Con Raffaela Mariniello il contrasto tra durata e immobilità si può intendere come una metonia di forme di esperienza – dello stare nel mondo e di una vita interiore che procede in parallelo alla percezione sensoriale. In breve, lo si può vedere come artifizio per opporsi all’istantaneità della fotografia – e riportare il tempo all’indietro nell’immagine e così trattenere l’attenzione degli spettatori. Per quanto tempo ci si ferma a guardare una fotografia: un secondo o due, dieci secondi, venti, un minuto… La nostra attenzione dura in genere molto meno di quando guardiamo un dipinto – l’immediatezza e la profusione di figure duplicate, dissuade da un incontro più concentrato e prolungato. I fotografi adottano da sempre artifizi e strategie per attirare e trattenere lo sguardo dello spettatore, dettagli e precisione scientifica, estraneità, violente emozioni, grandezza, via via fino alla cornice, il montaggio, l’uso del testo ecc. tutti elementi di una ricca estetica formale e concettuale. La fotografia però (alla stregua del film e diversamente dalla pittura) ci ricorda quanto sia coinvolto il nostro sguardo, quanto la visione sia inadeguata e quanto la macchina fotografica ‘vede’ quello che l’occhio non vede. Non manca ovviamente l’inconscio – la struttura del guardare che integra l’immagine nella memoria e nel desiderio.

 

È tipico della vista cercare un ordine e un sistema . Quando ci sforziamo di capire il senso dei nostri mondi visivi, per quanto caotiche o disordinate possano apparire le cose, mettiamo in relazione l’ignoto con il famigliare per riuscire a collocare noi stessi e la nostra fonte primaria di riferimento: il corpo. Vediamo il corpo ovunque: intero o in parte, fattuale o metaforico, come organi interni, pelle, gesti e movimenti, azione e inerzia. Quando osservo, nella fotografia di Raffaela Mariniello, la superficie ondulata e grinzosa del banco di fango che affiora dalla bassa marea nella baia di Cardiff, o le intricate spirali di tubazioni sul molo di Palermo, o il contrasto tra l’area sterrata in primo piano con le pozzanghere, le erbacce e le pietre e i condomini ordinati, le antenne TV e i lampioni nelle strade di Valencia, la mia risposta è in parte filtrata dall’empatia e dalla familiarità fisica con i limiti e il potenziale del corpo umano. Secondo Freud, il principale rimando va ai nostri primi ricordi, le nostre prime esperienze di essere al mondo e i piaceri e i dolori che accompagnano l'infanzia. E’ allora che i confini tra l’io e l’altro, corpo e spazio, fuori e dentro, si formano e impostano l’esperienza adulta. Le rappresentazioni visive che risvegliano tali memorie hanno una presa particolare sulla nostra attenzione – percorsi che conducono in uno spazio pittorico, pareti o recinzioni che distinguono un’area dall’altra, trasformazioni della sostanza da solida a liquida o gassosa, divisioni tra interno e esterno – distinzioni che riproducono le prime esperienze di apprendimento ai tempi in cui lottavamo per dare un senso e un ordine all’ignoto e al nuovo. Lal filosofa Luce Irigary sostiene che questo periodo formativo segna la reciproca relazione tra vista e tatto, un rapporto che la filosofia occidentale ha nascosto privilegiando la vista. Per Irigaray, la metafora della luce come verità è un’idealizzazione che annienta la differenza sessuale. Nella sua narrazione, la luce è strutturata, ‘tattile’ e il senso della vista è profondamente coinvolto in quello del tatto, una formula che comporta una relazione corporea con il mondo invece che una costruzione di un soggetto incorporeo e di un obiettivo che contempla il campo visivo.(6) Quel che voglio dire è che l’emozione delle immagini di Raffaela Mariniello, come accade per la maggior parte delle opere d’arte che catturano la nostra attenzione e permangono nella memoria, è un ricordo contrario alla presenza corporea, che prescinde dalla sua (letterale) assenza dall’immagine: è riconoscimento ed estraneità, rassicurazione e incertezza, forma e vuoto, movimento e inerzia, oscurità e luce.

 

‘Tra il fotografo e il suo soggetto deve rimanere una distanza’ asserisce Sontag (7), entrando nel dibattito che ha sempre messo in discussione il voyeurismo del rapporto fotografico. Inevitabile ogniqualvolta l’obiettivo è puntato sul soggetto umano, individuo o ‘massa’, come intrusione ed espressione di un discorso di potere. Ma cosa dire della dimensione etica di altri generi di rappresentazione fotografica, come in particolare il paesaggio? Al riguardo il rapporto con lo sviluppo e la diffusione con il turismo di massa è la prova più evidente delle conseguenze socio-economiche del desiderio di possesso. La Kodak era solita reclamizzare eventuali luoghi su cui far posare lo sguardo della macchina fotografica e anche oggi i belvedere sono dotati di istruzioni dirette al fotografo dilettante su dove mettersi per cogliere la panoramica migliore. Davanti a nessun paesaggio, naturale o urbano, selvaggio e desolato oppure ordinato, è facile resistere alle lusinghe del pittoresco, del sublime, del simbolico o del moralista. Persino i progetti partiti come documentazione sistematica di forme, funzioni o modi di vivere – Atget, Robert Frank, i Bechers – sono visti proprio per la loro stessa indicizzazione come ricordi di ciò che è andato perduto; frammenti di significati alla deriva, che vogliono esprimere un ‘passato’ generalizzato (nostalgico, sentimentale), oppure collegato a specifici racconti. È stato Walter Benjamin a vedere in Atget non solo il precursore della fotografia Surrealista, ma anche un corpus di opere che, per la sua ripetitività, ordinarietà e assenza di esseri umani, aveva distrutto l’aura che avvolge l’oggetto: ‘la città in queste fotografie sembra svuotata, come un alloggio che non abbia ancora trovato un nuovo inquilino.’ (8)

 

Come i predecessori, Raffaela Mariniello crea delle serie – la città di Napoli, i porti del Mediterraneo, Cardiff – e le sue immagini evocano per lo più la vicinanza delle zone industrializzate e l’anonimato di ciò che è trascurato, le forme di produzione e i loro detriti comuni al sistema economico globale. Analogamente, l’habitus domestico viene trattato solo di rado nei dettagli, ma piuttosto rappresentato come una massa di unità identiche che formano un condominio o case a schiera. La citazione del nome del paese e della città d’origine – Valencia, Napoli, Palermo, Cardiff – non fa nulla per dissipare l’impressione di un’esistenza appartata e ordinata, anzi la didascalia potrebbe alludere anche a prigioni o caserme, e l’unica discontinuità di questo regime dell’ordine è costituita da due fotografie di case a Penarth Marina, una delle quali ritrae un interno. Ma anche in questo caso la rigida geometria delle tendine a rete e il calorifero smentisce ogni ipotesi che si tratti di un gusto casuale o personalizzato, ma presuppone piuttosto l’identica disposizione in ogni appartamento nel caseggiato. Infatti i particolari, che interrompono ciò che altrimenti altro non sarebbe che l’ortodossa retorica che descrive i costi della modernizzazione industriale, sono del tipo più aberrante. Crepe nel pavimento e macchie sul muro. Erbacce fiorite a profusione lungo una strada o al limitare di una proprietà, il luccichio argenteo di una pozzanghera di notte; corde e ferri abbandonati sono l’ornamento del molo di Bari; un muro di pietra crollato alla periferia di Beirut; una montagna di un qualche materiale denso e scuro, che ingombra sinistro il primo piano del porto di Cardiff o il delicato intreccio di filo spinato e di rete metallica attraverso la baia; un motorino solitario, fuori luogo al riparo sotto lo scafo di una barca all’esterno di una fabbrica di Atene; una struttura misteriosa, una specie di tavolo di cemento, nel mezzo di prati e cespugli a Siracusa e una strada accidentata che, attraverso un terreno invaso dagli arbusti, conduce a una raffineria, sono tutte sovrapposizioni suggestive di infinite possibilità narrative. Ma sono immagini che raccontano anche una storia sulla fotografia: sulla macchina fotografica come apparato tecnico e sociale, sulla fotografia come forma di geometria proiettiva molto vicina al sistema prospettico della rappresentazione (come testimoniano le numerose immagini di Raffaela Mariniello che ‘mettono in scena’ o accompagnano lo sguardo dentro uno spazio pittorico), come un rapporto privilegiato con il reale (per dirla con Christian Metz ‘un taglio dentro il referente’) (9) e come espressione del mondo visibile che riesce ancora ad attirarci con i suoi misteri e le sue rivelazioni.